Parlare di morte con gli adolescenti
da "La parola e la cura" - Primavera 2009
Conversazione col professor Gustavo Pietropolli Charmet
psichiatra, psicoterapeuta e docente universitario, è attualmente presidente dell'Istituto Minotauro, presidente del Centro Aiuto alla Famiglia in crisi e al bambino maltrattato (CAF), direttore del Crisis Center dell'Associazione L'amico Charly, direttore della scuola A.R.P.Ad – Minotauro di Psicoterapia Psicoanalitica dell'Adolescenza, direttore scientifico della collana "Adolescenza, educazione, affetti" dell'editore Franco Angeli.
Change: Come parlano della morte gli adolescenti con gli adulti?
Charmet: Nonostante il pensiero della morte sia un appuntamento pressoché ineludibile del processo di crescita adolescenziale, il contesto educativo e socioculturale attuale non consente agli adolescenti di parlare della morte con gli adulti.
In base a ricerche eseguite con questionari distribuiti nelle scuole e deputati proprio ad intercettare fantasie, ideazioni suicidarie o comunque propensione alla morte rispetto alla propensione alla vita, circa 20 ragazzi su cento dichiarano che nel corso dell’ultimo anno hanno frequentato il regno della morte con fantasie, progetti o addirittura con comportamenti di tipo suicidario passati inosservati dal mondo degli adulti, con i quali nonne hanno mai fatto parola.
Change: Da cosa può dipendere una simile totale mancanza di comunicazione tra adolescenti e adulti su di un argomento così importante e coinvolgente?
Charmet: Sono in gioco due diversi fattori: innanzi tutto in adolescenza l’ideazione relativa alla morte ha delle caratteristiche drasticamente narcisistiche e avviene dentro lo spazio privato e segreto del sé; in secondo luogo gli adulti hanno una straordinaria difficoltà a identificarsi col dolore degli adolescenti e quindi non danno cittadinanza di parola ai pensieri relativi alla morte, perché hanno l’impressione che parlare della morte e in particolare della morte volontaria sia rischioso in quanto può istigare al suicidio.
Change: Quando avviene che gli adulti riescano a parlare di morte con gli adolescenti, sono poi preparati a rispondere alle loro fantasie di morte?
Charmet: No, assolutamente no: perché l’idea che prevale è che non sia il caso di affrontare davvero un tema come la morte, che pure in adolescenza è all’ordine del giorno. Gli adolescenti si domandano: “Perché si nasce, se poi si deve morire?” oppure: “Che senso ha la vita, dal momento che si muore?”; qui si parla del senso della vita dopo la catastrofe della scoperta della propria mortalità. Sono questioni che riguardano da vicino i genitori, eppure per gli adulti è difficile accettare di parlarne o ipotizzare che se ne possa parlare, proprio perché prevale il pregiudizio che parlarne significa istigare.
Change: Ma quando i ragazzi si trovano davanti a una morte reale, per esempio un parente o un coetaneo, quando insomma la morte la vedono, come l’affrontano, visto che con gli adulti non riescono a parlarne?
Charmet: In realtà la vedono molto poco: l’occultamento della morte nella nostra società è drastico. Io sono cresciuto direi quasi vegliando cadaveri, perché da ragazzino si moriva in casa e il cadavere veniva vegliato per un po’…
Change: …I nonni morti sono i primi cadaveri che abbiamo visto tutti noi della nostra generazione…
Charmet: …E anche zii, prozii…
Change: Morire in casa era la norma…
Charmet: Si moriva in casa, e il cadavere veniva vegliato giorno e notte, e quindi il cadavere lo si vedeva.
Adesso non è più così: di cadaveri non ne vedono molti. Quando muore qualcuno, soprattutto se si tratta di un coetaneo, c’è una passione, un accaparramento della morte del coetaneo vissuta come un lutto molto personale, molto ravvicinato. Quindi con una intensità di cordoglio elevatissima.
Change: E quando la morte dell’adolescente è dovuta a suicidio?
Charmet: Sono sempre situazioni eccezionali quelle relative ai suicidio. Io ho una convenzione con il Ministero dell’Istruzione, in base alla quale quando si suicida un ragazzo vado nella scuola al fine di favorire la rielaborazione del lutto per la morte del compagno di scuola, di classe,o di banco. L’obiettivo è che venga esecrato il suicido come soluzione ai problemi della vita.
La situazione molto complessa, perché in realtà siccome quello che si suicida è sempre “il più bravo, il più bello, il migliore…” i ragazzi sono portati a ritenere che il suicidio sia un gesto di coraggio. C’è veramente un grosso un lavoro da fare…
Change: Secondo lei, i comportamenti a rischio tipo le dipendenze, le corse clandestine in auto e altri comportamenti estremi, hanno in qualche modo a che fare con l’immagine della morte dei giovani, degli adolescenti?
Charmet: ci sono ragazzi che sono in grado di simboleggiare la morte, di pensarci, di costruirci sopra religioni, filosofie, significati, nichilismi, ecc. Altri invece la agiscono e cioè pensano alla morte attraverso azioni, attraverso sfide, ordalie, offrendole grandi chance, grandi possibilità per dimostrare che possono batterla.
Change: Sfidano la morte ma contemporaneamente la temono... È molto diffusa tra gli adolescenti la paura della morte?
Charmet: Gli adolescenti si sentono in obbligo di essere audaci e coraggiosi per segnalare la differenza con la paura dei bambini e con la prudenza degli adulti, quindi c’è tutta una fase della vita in cui bisogna dare prove di coraggio, in sostanza sfidare la morte. Apparentemente la sfidano perché si ritengono immortali: in realtà è proprio perché hanno scoperto di essere mortali che hanno bisogno di dimostrare di essere immortali…
Change: I mezzi di comunicazione di massa parlano sempre di morte e di morti, però nella vita quotidiana, a casa, a scuola, non se ne parla affatto; si potrebbe fare qualcosa in ambito educativo per rendere questo tema reale e non fittizio tra i ragazzi?
Charmet: Sarebbe assolutamente necessario, auspicabilissimo… E’ un’educazione monca quella che non riesce a parlare della morte. Tutta la dimensione del sacro si apre proprio nell’incontro con la morte, ma anche tutta una serie di comportamenti estremamente gravi e preoccupanti è strettamente legata alla solitudine nella quale sono relegati i ragazzi in occasione dei pensieri sulla morte. Devono proprio vedersela da soli. Inoltre i grandi contenitori culturali che una volta organizzavano la speranza, davano un senso al rito, sono in grandissima crisi: dal marxismo al liberismo; Dio non si è svelato, c’è la crisi del sacro... Sarebbe quanto mai saggio che l’educazione famigliare e scolastica prendessero in seria considerazione l’idea che c’è la morte, c’è il dolore, c’è la malattia e la sofferenza. Ma nella società del narcisismo sarà difficile che questo succeda.
Change: Molti operatori che lavorano con gli adolescenti che qui a CHANGE incontriamo in occasione di momenti formativi, usano il pericolo della morte come deterrente per convincere gli adolescenti a desistere dai comportamenti a rischio: i risultati sono di solito pessimi,. Lei cosa pensa di questa abitudine di usare la minaccia di morte come intervento preventivo?
Charmet: io ho fatto molte esperienze di prevenzione, soprattutto per l’aids. Perché quando ho capito che era una minaccia serissima per i ragazzi e la sessualità, ho pensato che davvero dovessimo capire bene come si poteva aiutarli a evitare di contagiarsi nello stadio del piacere e dell’intimità erotica. E quindi sono andato in tantissimi posti a parlare con i ragazzi, e mi sembrava importante dar loro informazioni. Le informazioni riguardavano in genere proprio il rischio di morte; però ho capito che in realtà bisognava battere la strada opposta: quella cioè di arruolarli in una grande campagna ideale in difesa del territorio dell’amore e dell’eros e della salute, e che fargli balenare davanti la morte era un invito a sfidarla.